Balme-Il Labirinto Verticale
Escursionismo
Escursionismo
“QUEST’OGGI TEMPO BELLO SONO A CERCARE SETTE PECORE PER QUESTE MONTAGNE DEL DIAVOLO”. E’una delle tante iscrizioni che si trovano incise sulle rocce a picco che sovrastano le case di Balme. Molte recano nomi e soprannomi, date, osservazioni sul tempo, sulle stagioni, sul lavoro, ma ci sono anche dichiarazione di fede religiosa o di filosofia di vita “TUTI ABBIAMO DI MORIRE”, e ancora “CIBRARIO TUNDU’ GIUAN DOMENICO DEI COSTANTINI FIGLIO DI COSTANTINO DI UCEGLIO BUON PASTORE PER FARE PASCOLARE LE PECORE E VI SALUTO TUTTI IN PARADISO SE PROCUREREMO DI ANDARE, ALI 26 DI AGO 1865”.
“L’Ròtchess”, le rocce, è il nome che i Balmesi danno alla grande parete che incombe sul loro villaggio e che sulle carte militari è indicata con il nome di Torrioni del Ru.
Una parete priva di vegetazione e solcata da cascate, che piomba per quasi mille metri di salto dalle vette della Punta Rossa e dell’Uja di Mondrone fino dietro ai magri campi e le vecchie case di pietra. Una parete che di lontano appare uniforme e compatta e che invece si articola in una miriade di anfratti, di canali, e di torrioni, che assumono reali proporzioni soltanto quando le nuvole s’insinuano nel rilievo delle creste e dei contrafforti o quando la neve si posa sulle cenge e sulle terrazze, disegnando i contorni di un gigantesco labirinto verticale.
Un luogo certamente severo, ma non ostile e in fondo persino ospitale, dal momento che vi trovano una felice convivenza gruppi sempre più numerosi di arrampicatori e di stambecchi. I primi trascorrono le domeniche di sole andando su e giù per le grandi falesie della palestra di roccia del Ginevré, mentre gli altri hanno trovato un habitat ottimale sulle lisce pareti di roccia, non hanno paura dell’uomo e scendono qualche volta persino a brucare l’insalata degli orti dietro le case.
L’una e l’altra sono presenze recenti. Per secoli e forse per millenni la parete ha conosciuto altri abitatori, che hanno popolato le cenge e le terrazze, traendovi di che vivere e lasciando tracce del proprio passaggio.
Generazioni di pastori balmesi hanno condotto su queste rocce il proprio gregge di pecore e di capre, non solo in estate, ma soprattutto nella cattiva stagione, quando il fondovalle è coperto di neve ed invece la grande parete riscaldata dal sole offre qua e là un pascolo magro ma libero dai ghiacci.
Era il lavoro dei ragazzini di ambo i sessi, che partivano la mattina di casa con una fetta di pane o di polenta in tasca e passavano la giornata lassù, con il gregge di capre che rappresentava una parte importante nel capitale della famiglia. Portavano con sé anche una scodella di legno, che usavano per dissetarsi con l’acqua delle cascate o più spesso con il latte dei propri animali. Ma la scodella serviva anche come compasso per tracciare sulle rocce quei rosoni a spicchi, remoto simbolo solare che da millenni si ripeteva immutato nella decorazione degli oggetti di legno o di pietra, anche se ormai non era più compreso nel suo originale significato magico e religioso.
Durante le lunghe ore sulle terrazze al sole oppure al riparo delle bàrmess quando quando il tempo era brutto, i ragazzini incidevano la pietra con il coltello o con la punta di un chiodo. Gli affioramenti di quella roccia tenera e verdastra, che si chiama cloritoscisto, fornivano una lavagna ideale per dare libero sfogo alla fantasia.
Ruote, dischi solari, croci, figure umane e di animali si sovrapponevano a nomi, date, osservazioni sulla vita quotidiana. Ognuno si firmava con il proprio soprannome personale e familiare. Ricorre più volte il nome di “SOPO DI PLERE”, che lascia trasparire l’orgoglio di quel Giuseppe Antonio Castagneri detto Pìn Plère, calzolaio e suonatore di violino, che era zoppo e tuttavia capace si salire sulle rocce come i suoi coetanei.
A Balme qualcuno ancora si ricorda dei sistemi usati per superare i passaggi più impegnativi (sulle rocce più lisce, bisognava orinare sui piedi, perché la pelle bagnata aderisce meglio alla roccia asciutta…) ed anche di quante volte proprio i ragazzini erano andati a trarre d’impaccio gli alpinisti che si erano smarriti nel labirinto di cenge. Si parla anche del Vioùn della Pénna, dove si trova la cava di pietre per affilare le falci. Ed ancora di quando le donne salivano al lago del Ru per rimuovere le dighe di zolle, in modo che l’acqua scendesse nel vallone. Sulle cenge, gli uomini provvedevano con tronchi scavati a deviarla nei canali d’irrigazione (ru), per bagnare i campi di segale e di orzo sul versante riarso dell’andrìt.
Descrizione
Il Labirinto Verticale è un bellissimo sentiero, esposto e spettacolare, utilizzato fin dall’antichità dai pastori di Balme; tramite cenge e tracce di sentiero, questo percorso permette di superare le balze rocciose poste sul ripido versante esposto a sud sopra l’abitato di Balme; terminata la parte ripida, ci si ricongiunge al sentiero che da Balme conduce al lago Mercurin, situato sotto il selvaggio versante ovest dell’Uja di Mondrone.
Partenza : Piazzale “Camussot”
Tempo di salita:Ore 3.00 – 3.30
Tempo di discesa: 1.45 – 2.00 dal bivio; 2.15 – 2.30 dal Lago Mercurin
Dislivello: 900 m per il solo labirinto verticale
1100 m proseguendo fino al lago Mercurin
Periodo consigliato: tarda primavera – inizio autunno
Difficoltà: EE
Il percorso inizia dalla piazzetta dell’Albergo Camussòt m 1480. Seguire il sentiero per il lago Mercurin,passando per la Péra dìi Tchàmp, belvedere sul paese sottostante attraverso un rado bosco di faggi. Trascurare sulla sinistra il sentiero segnato per il Lago Mercurìn e proseguire a destra su di un sentiero a mezzacosta che passando tra pietraie, boschi e campi raggiunge direttamente la base della grande parete in corrispondenza della cascata più bassa del rio Pissài m. 1600.
Sui due lati della cascata, che alla fine dell’estate è spesso asciutta, si possono osservare alcune bàrmess(ripari sotto roccia) dove si trovano incisioni ed iscrizioni (una di queste è in patois “OURÀ’ IÀ LOU SOULÈI OURÀ’ PROÙ”, “un momento c’è il sole e un momento no”). Alcuni di questi ripari sono chiusi da muretti (baricàiess) che servivano per la caccia alla marmotta, riservata per tradizione ai vecchi che non erano più in grado di cacciare il camoscio.
Sulla destra orografica della cascata, risalire un breve canale ripido in direzione ovest, fino ad un ripiano con un masso recante un’iscrizione di difficile lettura. Risalire un altro piccolo canale nella direzione opposta (est) con piccola croce con i bracci ad anello ed alcune iscrizioni: “SOPO DI PLERE 1880” e “C. B. DI CANÀN, A LI 10 MAI 1887”.
Si giunge così alla seconda cascata del Rio Pissài, m. 1680, dove inizia la cengia di Lansàtta, che sale in direzione ovest, dapprima assai ampia e poi gradualmente più stretta.
Il nome significa “lancetta” e sta indicare lo strumento, simile ad una affilata lancetta di un orologio a pendolo che si usava per incidere le vene durante il salasso. Questo nome, nel patois di Balme, indica la vipera aspide tipica di questi luoghi, piccola e sottile con la testa triangolare e ben evidenziata. Questi rettili erano in passato numerosi su questa parete ben soleggiata. Oggi sono quasi scomparsi in seguito alla presenza di numerosi uccelli che li predano (gracchie, corvi imperiali, poiane e aquile), che si sono moltiplicati con il venir meno della caccia.
Giunti alla quota 1720, la cengia fa più ripida e stretta, fino a ridursi ad uno stretto passaggio sotto una roccia sporgente. Proprio nel tratto in cui il passaggio è più angusto, vi sono alcune iscrizioni “1827 PANCRASIO C. 1803”. Superato questo punto, seguire ancora per un tratto la cengia, fino ad imboccare un altro breve e ripido canale verso est. Si giunge così ad una ampio ripiano erboso presso la terza cascata del Rio Pissài.
Proseguendo si attraversa una grande spaccatura, con un riparo sotto roccia (bàrma) che reca tracce di antichi bivacchi, riconoscibili nei muretti di pietra, e nelle ortiche (queste ultime testimoniano la presenza nel terreno di deiezioni animali). Pochi metri a valle del masso che forma la bàrma, sull’orlo del salto di rocce, si apre un altro più ampio riparo sotto roccia chiuso da un piccolo muro di pietra a secco.
Questo luogo, detto “lou bou dìi Canàn” (la stalla dei Canàn), era utilizzato dai pastori di capre della famiglia Castagneri Canàn per la fabbricazione del formaggio caprino, senza dover trasportare a valle il latte. E’ ancora possibile vedere il luogo dove veniva acceso il fuoco, una piccola fascina di sterpi ed una losa scanalata (pilòiri), che serviva per mettere a colare i formaggi dentro le forme, permettendo di recuperare il latticello (laità). Sul tetto della bàrma si leggono alcune date tra cui “1661” e “P*S”, oltre ad alcuni enigmatici disegni a graticcio. Nei pressi della bàrma, si trovano ancora altre iscrizioni di varia epoca. Questi ripari furono anche usati, a più riprese, dai giovani di Balme che fuggivano l’arruolamento forzato, come accadde durante l’occupazione francese alla fine del secolo XVIII e durante l’inverno 1944-45 in occasione dei rastrellamenti.
Ritornando sulla cengia, si prosegue in leggera salita (altre iscrizioni), superando diversi valloncelli, fino alla quota m. 1900. La cengia finisce contro uno spigolo roccioso per superare il quale è stato costruito un rudimentale muretto con alcune lastre di pietra ed oltre il quale si apre il canalone del Rio del Ru. A questo punto, invertire il senso di marcia e seguire una grande cengia che sale verso est, di nuovo in direzione del canalone del Rio Pissài. Si giunge così all’altezza del grande salto d’acqua (il Pissài vero e proprio m 1882) e si svolta di nuovo verso ovest, imboccando un canale ripidissimo che permette di salire più o meno verticalmente, superando un’altra bàrma, fino a raggiungere sulle rocce della Pénna dove si trova il giacimento delle pietre da mola.
Queste pietre da mola, una varietà di cloritoscisto, erano assai apprezzate per affilare ogni sorta di arnesi da taglio e soprattutto le falci da fieno (i falciatori tenevano queste pietre immerse in un po’ d’acqua dentro un corno di vacca agganciato alla cintura). Per questo venivano raccolte ed anche commercializzate fuori del paese.
Il monte Pénna m 2200, che dalle case di Balme appare come una vetta, è in realtà soltanto la parete che sostiene un grande pendio di pietrame posto tra i due valloni del Rio Pissài e del Rio del Ru. Di qui, salendo direttamente, si raggiunge il sentiero segnato del Lago Mercurìn.
Discesa:
Raggiunto il sentiero proseguendo in salita sulla destra in mezz’ora si raggiunge il Lago Mercurin, viceversa svoltando a sinistra in 10 minuti circa ci ricongiunge con il vallone del Ru. Di qui sempre scendendo, seguendo il sentiero che mantiene la sinistra del vallone (senso di marcia), si percorre a ritroso il vallone fino ad affacciarsi nuovamente su Balme. A questo punto bisogna attraversare il rio che scende dal Lago del Ru (passaggio che può presentare difficoltà in caso di attraversamento nelle tarde ore del pomeriggio ad inizio dell’estate quando ci sono ancora nevai nella parte alta dell’omonimo vallone a causa del considerevole aumento della quantità di acqua). Per un cengia si raggiunge una sella rocciosa superando il crinale ed affacciandosi su un vallone erboso dapprima ripido e poi meno ostico, seguire il sentiero e quindi attraversare a sinistra l’impluvio e puntare al ripetitore. Di qui proseguire fino a raggiungere il sentiero che sale alla Falesia del Ginevrè, svoltare a destra e scendendo per prati si raggiunge il piazzale del Camussot da dove si era partiti ad inizio giornata.